Alberto Montesso: la danza è gioia, l’arte è evasione

alberto montesso

Una vita trascorsa con e per la danza, quella di Alberto Montesso, una carriera iniziata studiando all’Accademia Nazionale di Danza a Roma e proseguita presso diversi importanti teatri e compagnie (Teatro dell’Opera di Roma, English National Ballet, K Ballet, Tulsa Ballet). La danza lo ha portato in giro per il mondo, dall’Europa agli USA, dal Giappone alla Nuova Zelanda, per poi tornare in Italia ad insegnare.

Attualmente Alberto Montesso è impegnato presso il Teatro San Carlo di Napoli come Maestro di Danza Classica presso la Scuola di Ballo (diretta da Stéphane Fournial).

Parlare di danza con Alberto Montesso significa ricevere una carica di energia positiva, la carica di un ballerino appassionato e determinato e di un insegnante  propositivo che sta dalla parte dei giovani. E proprio alla figura di “Alberto Montesso insegnante” abbiamo rivolto qualche domanda, per meglio capire il suo rapporto con l’Italia e la sua visione dell’insegnamento, alla luce soprattutto dei tanti anni trascorsi lontano dal suo Paese, in nome della sua passione per la danza.

Alberto Montesso: l’intervista

Alberto, la danza ti ha portato a viaggiare tantissimo in giro per il mondo. Ora sei a Napoli e hai a che fare tutti i giorni con giovani desiderosi di intraprendere con successo una carriera nel mondo della danza. Che tipo di insegnamenti trasmetti loro, quali sono secondo te le fondamenta imprescindibili per un ballerino?

Devo dire che da quando sono arrivato a Napoli, al San Carlo, ho trovato un gruppo di allievi veramente affamati di imparare, di conseguenza a lezione c’è una bella atmosfera. I ragazzi vogliono imparare tutto nel più breve tempo possibile. Questo naturalmente è impossibile, però c’è tanta voglia di crescere insieme e quindi gli insegnamenti vengono recepiti meglio. I miei insegnamenti sono aiuti per farli migliorare, perché nei loro occhi leggo una grande voglia di crescere e questo mi fa piacere. Per un insegnante è la cosa più gratificante, perché alla fine non importa molto quanto insegni: la cosa più importante è la voglia che ha l’allievo di apprendere.

Secondo te è più produttivo un rapporto “formale” con gli allievi, o preferisci un approccio più personale? 

Se non stabilisci un bel rapporto di fiducia, stima, affetto e comprensione con i tuoi allievi puoi anche insegnare, ma nessuno ti seguirà! E poi io credo che la crescita debba essere anche dalla parte dell’insegnante. Non puoi più essere l’insegnante di una volta: duro, che non trasmetteva emozioni, che aveva gli occhi di ghiaccio. Erano altri tempi. Non c’era Facebook, non c’era Instagram, di conseguenza avevi più fiducia nell’insegnante perché era l’unica persona che poteva dirti quello che accadeva nel mondo. Se lui ti diceva: “In America gli asini volano” tu ci credevi, perché non avevi possibilità di constatarlo! Adesso basta andare su Wikipedia o su Youtube per verificare qualsiasi cosa. Per questo posso dirti che l’insegnante deve adeguarsi al modo di comunicare che hanno gli allievi, mantenendo chiaramente i valori fondamentali di disciplina, rispetto e stima.

I valori sono rimasti gli stessi insomma, a cambiare è solo il modo di comunicarli.

Esatto, per questo è fondamentale che l’insegnante cresca in questo senso: deve imparare a comunicare come comunicano i giovani, altrimenti non va da nessuna parte. Devi conquistare la loro fiducia, la loro stima.

Lo scorso 5 novembre c’è stato il Concorso di Civitavecchia, nato dalla collaborazione con Maria Rubulotta. Tu quando sei chiamato a giudicare su quali criteri ti basi? Da cosa capisci che un danzatore ce la può fare, che ha qualcosa in più rispetto agli altri?

Dalla spontaneità, dalla naturalezza con cui stanno sul palcoscenico. A Civitavecchia ho organizzato il Concorso e ho avuto modo di guardare con attenzione le esibizioni. Purtroppo ci sono persone che portano sul palco troppi problemi: ne abbiamo tanti già tutti i giorni, basta ascoltare il telegiornale. Portarli anche sul palcoscenico…

Quindi prediligi un tipo di danza che sia più di evasione?

Sì, perché l’arte è questo, serve a sollevare gli spiriti, non serve a incupirsi, a portare i problemi terreni su un palcoscenico. I problemi ognuno di noi li risolve quotidianamente nel proprio privato, ma quando si va a teatro ci si deve distrarre, si deve avere un’ora e mezza di svago, senza pensare ai problemi. Questo riguarda anche le scelte musicali: a volte si vuole fare un po’ troppo la filosofia della danza, ma non dimentichiamoci che si tratta di arte e come tale deve essere di accompagnamento, di gioia.

Tu sei di Civitavecchia, per te lì tutto è iniziato: cosa provi quando ci torni?

Quella è casa mia, lì mi sento protetto, ho i miei tre amici storici, la mia famiglia. Civitavecchia è il mio rifugio, quando posso ci torno sempre volentieri, ci sto bene. Quando sto lì stacco veramente, anche se continuo a lavorare tramite mail o telefono, ma sapere di essere a casa con mia mamma mi fa sentire nella mia tana, coccolato. E poi vivendo sempre in grandi città tornare in un posto dove puoi parcheggiare la macchina e riprenderla una settimana dopo è quasi surreale! Civitavecchia ce l’ho nel cuore.

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Viet Thanh Nguyen

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Viet Thanh Nguyen, Premio Pulitzer 2016 per la Narrativa con il romanzo “The Sympathizer” (2015), professore universitario di “English and American Studies and Ethnicity” nella prestigiosa University of Southern California di Los Angeles (U.S.A.)

 Il 18 aprile 2016, alla Columbia University di Broadway, Pulitzer Hall 709, New York, U.S.A., è nata una Nuova e Luminosissima Stella nel firmamento della letteratura planetaria: Viet Thanh Nguyen!

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Viet Thanh Nguyen non è ancora uno scrittore noto al mondo, almeno fino ad oggi, giorno di Pasquetta del 2017.

Non lo è, e non lo è stato fino ad un anno fa, neanche nel suo Paese d’adozione, gli Stati Uniti d’America.

Viet Thanh Nguyen è nato a Buôn Ma Thuôt, in Vietnam, nel 1971.

Nel 1975 la sua famiglia fugge negli Stati Uniti d’America per chiedere asilo politico dopo la caduta del regime sostenuto dagli Americani nel tentativo di colonizzare il Paese motivando l’“invasione armata” col più nobile degli obiettivi della politica occidentale; “importare la democrazia” in Vietnam attraverso una guerra sanguinaria, sanguinosa e dolorosa di cui il popolo americano ancora oggi porta ferite profonde e incancellabili.

Tutti i profughi vietnamiti che avevano sostenuto il Governo Statunitense, e che riuscirono a fuggire dalla Rivoluzione vietnamita, vennero accolti da subito in diversi campi di accoglienza in territorio americano.

La famiglia di Viet Thanh Nguyen passa il primo periodo della sua permanenza in Pennsylvania, presso il campo profughi di Fort Indiantown Gap.

Solo alla fine degli anni ’70 Viet e la sua famiglia possono iniziare una vita da cittadini liberi e da cittadini americani veri ottenendo dal Governo Americano il permesso di trasferirsi dove avrebbero voluto vivere dal momento in cui misero piede negli U.S.A.: la California, a San Jose, che per clima e humus era ritenuto dai Nguyen, almeno nell’immaginario, il più vicino e “prossimo” a quello del Paese che avevamo amato e abbandonato per sempre, per sfuggire a morte certa.

È dalla California che il piccolo Viet Thanh Nguyen inizia gli studi, con passione, intelligenza e determinazione, laureandosi nel maggio del 1992 col massimo dei voti in “Letteratura Inglese e Studi Etici” divenendo poi, nel 1997, professore universitario in “English and American Studies and Ethnicity” nella prestigiosa University of Southern California di Los Angeles.

Inizia a scrivere novelle, racconti brevi e libri di saggistica oltre a svolgere, con grande diligenza, competenza e preparazione la sua professione di professore universitario.

Nel 2015 pubblica il suo primo romanzo, “The Sympathizer”, edito da Grove Press, New York.

Il 18 aprile 2016 Viet Thanh Nguyen vince il più prestigioso dei premi letterari al mondo, il Premio Pulitzer, nella categoria “Fiction” (Narrativa), con la seguente motivazione «a layered immigrant tale told in the wry, confessional voice of a “man of two minds” and “two countries”, Vietnam and the United States» («una storia di immigrati raccontata a strati e con sottile ironia; la confessione di una voce di un “uomo con due menti” e “due Paesi”, il Vietnam e gli U.S.A.»).

È questa la premessa alla prestigiosa intervista che il Prof. Viet Thanh Nguyen mi ha concesso oggi attraverso l’utilizzo dei potenti mezzi informatici e di comunicazione di cui disponiamo tutti; mezzi che hanno reso possibile mettermi in contatto con quello che ritengo essere uno dei migliori e più profondi scrittori del XXI secolo.

Ecco la mia intervista.

Prof. Viet Thanh Nguyen, se dovesse dire qualcosa ai nostri lettori, come Artista e come Scrittore, cosa direbbe loro?

Che sono molto felice che i lettori in Italia stiano leggendo il mio romanzo!

Quando ha pensato di scrivere questo Romanzo, quali obiettivi aveva il suo progetto?

In primo luogo, quello di contestare il modo in cui la guerra in Vietnam è stata e viene ricordata a livello globale, soprattutto a causa dei “racconti” statunitensi (sia in letteratura che nel cinema). Questa è forse stata la prima guerra nella storia in cui i perdenti (gli americani) hanno scritto la storia, invece che i vincitori. I vietnamiti di tutto il mondo, nelle storie raccontate dagli americani, sono stati cancellati, messi a tacere, oppure mutilati; mentre le memorie dei vietnamiti in Vietnam, e la diaspora che ne è scaturita, sono molto diversi e, di fatto, non sono affatto conosciute.

Così ho pensato al mio romanzo come a una vendetta contro le storie americane, un tentativo di scrivere una storia diversa della guerra, da una prospettiva vietnamita.

In secondo luogo, l’idea di scrivere un romanzo che fosse riconosciuto universalmente nella sua narrazione della guerra, della fedeltà, del tradimento, della rivoluzione e che fosse anche una apologia radicata, un forte discorso a difesa della vera storia dei vietnamiti.

Io penso che il suo Romanzo sia il più interessante e stravolgente libro scritto negli ultimi venti anni, per tutto quello che contiene, per la qualità della narrazione e per la profondità dell’introspezione psicologica che con eccellente maestria Lei fa di tutti i protagonisti della Sua storia; al contempo ribaltata con estrema classe e sottilissima ironia la prospettiva interpretativa della guerra in Vietnam. Cosa ci dice in proposito?

Grazie del complimento, Andrea! Penso che quello che il mio romanzo dice è che non vi è alcuna storia o narrazione che sia stata raccontata così tante volte, in modo altamente ripetitivo come quello che è stato detto e scritto dagli americani della guerra in Vietnam; una storia non può essere rovesciata e ricostruita in un modo completamente diversa da quella che allora fu la realtà.

Come ha vissuto da vietnamita naturalizzato statunitense negli Stati Uniti d’America? Quali sono stati i vantaggi e gli svantaggi di essere un rifugiato naturalizzato in un Paese che comunque dà sempre e prioritariamente al merito e alle capacità personali grande spazio per avere successo professionale e sociale?

Come rifugiato negli Stati Uniti, ho sempre percepito di essere visto come una spia. Ero un americano di una famiglia di genitori vietnamiti, pronto a spiare le loro strane abitudini, il loro cibo, e la loro lingua. Fuori da casa mia, mi sentivo come una spia vietnamita di tutta la bellezza e di tutte le stranezze degli americani. Ho imparato a non dare per scontato tutto ciò che ogni cultura dice o scrive di sé stessa, ho imparato ad essere sempre scettico. Questa è stata una posizione scomoda da vivere in America; ma al contempo un luogo produttivo per un romanziere che deve sempre porsi in modo sia empatico che critico. Nella misura in cui io sono stato simpaticamente scettico, mi è sempre stato profondamente chiaro il potere e la seduzione del Sogno Americano al quale tu fai riferimento, ma sempre consapevole delle sue insidie. Il sogno americano è, infatti, reso possibile solo dall’Incubo Americano di genocidio, di schiavitù, di colonizzazione, di guerra, di razzismo e di sfruttamento, nonché dalla negazione di tutte queste cose. Sono venuto negli Stati Uniti a causa dell’Incubo Americano, spedito qui dal mio paese di nascita e sono cresciuto negli Stati Uniti come beneficiario del Sogno Americano. Questa è la contraddizione che mi ha reso quello scrittore che sono oggi e dalla quale non riesco a indietreggiare; uno scrittore che deve confrontarsi continuamente, come faccio in “The Sympathizer” (“Il Simpatizzante”).

Se due bambini di dieci anni dovessero chiederle con spontaneità, ingenuità e curiosità: «Prof. Viet Thanh Nguyen, ci spiega per favore cos’è l’Arte?», come risponderebbe a questa domanda per far capire loro quello che vogliono sapere?

L’Arte è quello che senti e quello in cui credi, quello che puoi vedere con gli occhi della tua mente. Come realizzare quello che vedi in modo che anche altri possano vedere; che è al contempo un mandato per tutta la vita, radicato nelle intuizioni emotive e nel dolore di quello che sei, come un bambino.

Verrà in Italia per presentare il suo Romanzo “The Sympathizer”? Se sì, quando e quale sarà il tour perché i nostri lettori possano venire a sentirLa parlare e ad incontrarLa per avere il suo autografo sul suo Romanzo?

Mi piacerebbe vedere di nuovo l’Italia, considerato che il mio primo e unico incontro con l’Italia è stato nell’estate del 1998 quando con il mio zaino ho visitato Roma, Venezia e Firenze. È stata un’esperienza meravigliosa, bellissima e romantica.

Adesso sono stato invitato a partecipare ad alcuni Festival per l’estate prossima, quella del 2017, e deciderò presto se potrò partecipare.

Grazie infinite Prof. Viet Thanh Nguyen di avermi concesso questa intervista che le confesso mi lusinga e mi onora tantissimo … e, come dite voi americani, break a leg…

Grazie a te, Andrea, per avermi chiesto l’intervista per i tuoi lettori italiani.

Per chi volesse approfondire virtualmente la conoscenza del Premio Pulitzer 2016, Viet Thanh Nguyen, ecco alcuni link da consultare:

http://www.vietnguyen.info/  

http://www.pulitzer.org/prize-winners-by-year/2016  

http://www.pulitzer.org/winners/viet-thanh-nguyen  

https://www.facebook.com/pulitzerprizes  

https://www.facebook.com/vietnguyenauthor/  

https://twitter.com/viet_t_nguyen  

https://en.wikipedia.org/wiki/Viet_Thanh_Nguyen  

http://www.groveatlantic.com/#page=isbn9780802124944%20  

http://www.neripozza.it/collane_dett.php?id_coll=3&id_lib=1024 

Per chi volesse conoscere meglio virtualmente l’autore dell’intervista, Andrea Giostra, ecco i suoi link:

https://business.facebook.com/AndreaGiostraFilm/?business_id=1569737553326223

https://www.facebook.com/andrea.giostra.37

https://www.facebook.com/andrea.giostra.31

Viet Thanh Nguyen, 2016 Pulitzer Prize for Fiction with “The Sympathizer novel” (2015), university professor of “English and American Studies and Ethnicity” in the prestigious University of Southern California in Los Angeles (U.S.A.).

 

Ed ora riportiamo anche l’intervista in inglese.

Interview by Andrea Giostra

On 18 April 2016, at the Broadway Columbia University, Pulitzer Hall 709, New York, U.S.A., was born a new and Brightest Star in the firmament of the planetary literature: Viet Thanh Nguyen!

Viet Thanh Nguyen is not yet a writer known to the world, at least until now, on Easter Monday of 2017. He is not, and he wasn’t until a year ago, even in his adopted country, the United States of America.

Viet Thanh Nguyen was born in Buôn Ma Thuôt, Vietnam, in 1971. In the 1975 his family fled to the United States for seeking political asylum, after the fall of the regime supported by the Americans in an attempt to colonize the country motivating the “armed invasion” with the noblest of objectives of Western policy: “import the democracy” in Vietnam through a bloody war, bloody and painful of which the American people still bears deep scars and indelible.

All Vietnamese refugees who had supported the US Government, and who managed to escape from the Vietnamese Revolution, they were greeted immediately in several camps on US soil: Viet Thanh Nguyen’s family spent the first period of his stay in Pennsylvania, at the refugee camp of Fort Indiantown Gap.

Only at the end of the ‘70 Viet and his family can start a life as free citizens, and as true Americans, getting from the US government for permission to relocate where they wanted to live from the moment they set foot in the US: in California, in San Jose, for climate and for humus that was considered by Nguyen, at least in the imagination, the closest to that of their country that they had loved and had abandoned forever, to escape certain death.

It’s from California that the small Viet Thanh Nguyen began his studies with passion, intelligence and determination, graduating in the May 1992 with honors in “English Literature and Ethics” studies; then becoming, in 1997, university professor in “English and American Studies and Ethnicity” in the prestigious University of Southern California in Los Angeles.

Viet starts writing novels, short stories and non-fiction books, as well as performing with great diligence, competence and preparation his profession of university professor.

In the 2015, he published his first novel, “The Sympathizer“, published by Grove Press, New York.

In the April 18, 2016 Viet Thanh Nguyen won the most prestigious literary awards in the world, the Pulitzer Prize, in the category “Fiction”, with the following motivation: «a layered immigrant tale told in the wry, confessional voice of a “man of two minds” and “two countries”, Vietnam and the United States».

This is the premise of the prestigious interview that Prof. Nguyen Viet Thanh has given me today using the powerful information and communication media available to us all; means that give me the possible to get in touch with who I consider to be one of the best and deepest writers in the twenty-first century.

Here’s my interview.

Prof. Nguyen Viet Thanh, if you were to say something to our readers, as artist and as a writer, what would you tell them?

I am so delighted that readers in Italy are reading my novel!

When you thought about writing this fiction, which were your project objectives?

First, to contest the way that the Vietnam War has been remembered globally, which is primarily through American stories (in literature and in film). This was perhaps the first war in history where the losers (the Americans) were able to write the history instead of the victors. The Vietnamese of all sides have been erased, silenced, and/or mutilated in American stories, and while Vietnamese memories in Vietnam and its diaspora are vastly different, they are not widely known. So I thought of my novel as revenge against American stories, and an attempt to write a different history of the war from Vietnamese perspectives.

Second, to write a novel that was universal in its discussion of war, loyalty, betrayal, and revolution, and yet was unapologetically rooted in the history of the Vietnamese.

I think that your fiction is the most interesting and shocking book written in the last twenty years, for all that it contains, for the quality of the narrative and for the deep psychological introspection that with excellent skill you do for all the protagonists of your history; at the same time, you have skillfully overturned, with thin class and irony, the interpretative perspective of the War in Vietnam. What does that say about it?

Thank you! I think what my novel says is that there is no history or story that has been told again and again, in highly repetitive ways, as the American story of the Vietnam War has been told, that cannot be upended and redone in a completely new way.

How was your experience as Vietnamese Naturalized American in the United States of America? What were the advantages and disadvantages of being a refugee of war, naturalized in a country that still and always gives priority to the merit and to the personal talent, and it gives large space for professional and social success to all the people?

As a refugee in the United States, I always felt that I was a spy. I was an American in my parents’ Vietnamese household, spying on their strange customs, food, and language. Outside that home, I felt like a Vietnamese spying on Americans in all their beauty and strangeness. I learned never to take for granted what any culture told about itself, to always be skeptical. This was an uncomfortable position to be in, but a productive place for a novelist, who should always be both empathetic and critical. In so far as I was a sympathetic skeptic, I both deeply understood the power and seduction of the American Dream that you refer to, and yet was also always aware of its pitfalls. The American Dream is, in fact, made possible only by the American Nightmare of genocide, slavery, colonization, warfare, racism, and exploitation, as well as the denial of all those things. I came to the United States because of the American Nightmare delivered to the country of my birth, and I grew up in the United States as the beneficiary of the American Dream. That is the contradiction that made me who I am as a writer, and from which I cannot retreat but must confront continually, as I do in The Sympathizer.

If two children aged ten years come to you to ask with spontaneity, innocence and curiosity: “Prof. Viet Thanh Nguyen, please, explains us what is the Art?”, How would you respond to this question to make them understand what they want to know?

Art is what you feel and what you believe, what you can see in your mind’s eye. How to achieve what you see so that others can see it too is a task of a lifetime, rooted in the emotional insights and pain of who you are, as a child.

Will you come in Italy to present your fiction “The Sympathizer”? If yes, when and what will be the tour so that our readers can come to hear you speak and to meet you for their autograph on his fiction that will have bought?

I would love to see Italy again, since my first and only encounter with it was in the summer of 1998 when I backpacked through Rome, Venice, and Florence. That was a wonderful, beautiful, and romantic experience. I’ve been invited to a few festivals for the summer of 2017, and will decide soon whether I can attend.

Prof. Nguyen Viet Thanh Thanks to you so much for giving me this interview that I confess, it has flattered me and honored me so much … and, as you Americans say, break a leg …

Thanks to you, Andrea, for asking me the interview for your Italian readers.

 

 

Isabel Russinova racconta la chiave della sua Virginia B

L’atmosfera raccolta del Teatro Belli, nel pieno centro di Roma, è la cornice perfetta per raccontare una storia di non semplice rappresentazione. Virginia (Isabel Russinova) e suo marito, il Professore (Antonio Salines), sono una coppia sposata da oltre vent’anni e con una figlia (Annabella Calabrese) già in età da marito. Sullo sfondo i magnifici anni ’50 e il loro boom economico e culturale a fare da contesto, le pagine dei due diari tenuti dai protagonisti come escamotage per introdurre il tema dell’intimità insieme alla citazione del rivoluzionario Rapporto Kinsey, l’indagine sui comportamenti sessuali di uomini e donne americani che sfidava i convenzionali tabù e svelava i segreti delle camere da letto. Il Professore voleva parlarne dei suoi segreti e lo faceva con Lorenzo (Fabrizio Bordignon), un giovane amico di famiglia, infatti: confessava a lui tutte le sue perversioni ed esprimeva senza remore il desiderio di praticarle, soprattutto, rendendolo complice a vari livelli. Ogni tanto questo accadeva anche con la sua elegante moglie Virginia, la cui educazione però le impediva non solo di affrontare l’argomento a parole, ma anche di vivere appieno la sua sessualità. Fino ad un giorno in particolare, quando qualcuno deciderà di uscire allo scoperto per iniziare a dare corpo a tutte le passioni represse per tanto tempo, scelta che condurrà ad un tragico finale.

Isabel Russionva

Isabel Russinova, artista di grande esperienza che sul palco veste i panni della protagonista Virginia, in qualità di sceneggiatrice dell’intera rappresentazione risponde a qualche curiosità sulle origini di questo interessantissimo spettacolo.

Dal Giappone all’Italia degli anni’50 per omaggiare il capolavoro di un autore complesso come Junichiro Tanizaki: quali sono state le caratteristiche di questa opera che l’hanno colpita fin da subito e l’hanno convinta a scriverne un adattamento teatrale dal sapore particolarmente nostrano?

– Tanizaki è un autore con mille sfaccettature e contraddizioni, intenso e delicato, drammatico e allo stesso tempo ironico, innamorato della sua tradizione ma profondamente affascinato dall’occidente, sicuramente interessante e coinvolgente proprio come la figura femminile che ama rappresentare: luminosa, intelligente, magnetica, ti porta dentro al suo mondo e ne resti affascinata. Il suo sentire, il sentire dei suoi personaggi, è universale, è il sentire dell’uomo; io l’ho trasferito nel mondo che conosco, quello occidentale, e inserito   negli anni 50, ancora non così lontani dal dopoguerra ma così proiettati verso l’imminente boom economico. Tanizaki racconta il muoversi leggero e meraviglioso di personaggi in kimono, tra tradizioni, usanze e pensieri distanti per cultura e storia da noi, anche se la capacità di percepire è la stessa, non ha tempo né luogo.

Due gli adattamenti cinematografici del passato, tra cui l’omonimo film “La Chiave”, diretto da Tinto Brass ed interpretato da Stefania Sandrelli, record di incassi al botteghino nel 1983. Trascurando per un momento le differenze di linguaggio e, se vogliamo, anche di intenzioni, ci può raccontare come secondo lei è cambiato il modo di raccontare l’eros al pubblico da allora?

– Brass ha raccontato, attraverso la sua visionarietà e la sua sensibilità, mosso anche dal pulsare della società di allora, il cinema, il teatro, l’arte e la cultura che, come specchio del tempo, lo subiscono e contemporaneamente lo vogliono forgiare.  La mia scrittura parte dalla mia sensibilità, da un’idea di eros che è pensiero, fantasia, poesia, delicatezza, dolcezza e assolutamente lontana dalla carne…

Tornando invece al discorso cinema/teatro, le chiedo di confermare un’impressione: è possibile che parlare di erotismo tra le quinte teatrali sia un modo di farlo che più si avvicina a quello delicato che l’autore giapponese utilizza per descrivere il vero e proprio viaggio introspettivo che i due protagonisti, seppur adulti, compiono nelle coscienze individuali alla ricerca della loro dimensione sessuale?

– Credo che il racconto sia frutto della sensibilità di chi lo crea e non del linguaggio che utilizza. Quando prima di scrivere e mettere in scena il testo ne avevo parlato, più di un interlocutore non riteneva possibile portare in teatro l’erotismo, forse perché ancora legati all’immaginario di Brass, solo con la parola, ora si sono ricreduti… Quando leggiamo un libro o ascoltiamo un racconto, ciascuno crea da quegli spunti le proprie immagini, i volti, i personaggi, la loro voce, gli ambienti, le azioni che sono diverse per ognuno di noi.

Feticismo, masochismo, dominazione e adulterio sono alcuni dei punti su cui il racconto indugia, argomenti che ben si sposano con l’intreccio da noir psicologico della trama. La virata tragica che la storia prende sul finale sembra un chiaro riferimento al binomio classico Eros/Tanathos, il mito greco dei due massimi principi che, opponendosi, reggono il cosmo: in quale relazione ha desiderato mettere questi due estremi durante la stesura della sceneggiatura?

– Si, per la stesura del testo ho scelto proprio la strada del “noir psicologico “. La psicoanalisi freudiana dibatte proprio di questo -eros e morte- nel suo saggio “Al di là del principio di piacere” e ne parla ampiamente. Mi interessava però raccontare anche la ribellione di Virginia, il suo percorso psicologico in bilico tra moralismi e insofferenze, tra buio e luce, la sua scelta che  si fa strada travestita da non-scelta.

Considerato il suo percorso di emancipazione a cui abbiamo potuto assistere durante lo spettacolo, possiamo considerare Virginia una femminista?

– In un certo senso direi proprio di sì.

Mazzucco e Orrù: la loro “Storia di mezzo”

Sarà il Teatro S. Luigi Guanella di Roma ad ospitare gli attori della Compagnia degli Arti che questo venerdì, sabato e domenica torneranno a calcare il palco per riproporre, con un cast in parte rinnovato, una pièce dai toni comici ma con un grande significato sociale.

Gabriele Mazzucco, autore e regista dello spettacolo, e Federica Orrù, attrice co-protagonista, rispondono ad alcune domande sulla rappresentazione e ci raccontano la loro esperienza da artisti.

Dopo recente successo, questo weekend torna in scena “La Storia di mezzo”, lo spettacolo record di presenze e incassi nella stagione 2014-2015 del teatro romano Ambra alla Garbatella nonché vincitrice dei premi Thealtro 2012 e Teatro Araldo di Torino. Gabriele, è pronto per questo nuovo debutto?

– Non credo di essermi mai sentito realmente pronto prima di un debutto. Il carico di ansie che mi porto prima di qualsiasi replica riesco ad alleggerirlo solo nel momento dei ringraziamenti. Spesso si trasforma in gioia, altre volte in rabbia (se qualcosa non è andata come volevo); diciamo che vivo in modo profondo e viscerale ogni rappresentazione, dalle prime fasi fino all’ultima replica. Quando seguo gli spettacoli dalla regia ripeto una dopo l’altra le battute in parallelo agli attori in scena. Spesso mi lascio andare a digressioni e valutazioni in tempo reale. Molti colleghi o amici che hanno visto con me in regia i miei spettacoli, parlano del mio modo di vivere le repliche come “di uno spettacolo nello spettacolo”: il bello è che in quel momento non me ne accorgo assolutamente.

Scritta nel 2009, questa che lei stesso definisce una “tragicommedia”, diventata anche un libro, racconta la storia di un neo-licenziato, una figura che ormai siamo tristemente abituati a conoscere. Com’è nata l’ispirazione?

– Erano gli anni in cui studiavo all’università e parallelamente vivevo di lavori saltuari: impiegato in più sale scommesse, cameriere, organizzatore di tornei di calcetto, buttafuori. Intorno a me vedevo i miei coetanei affannati nella ricerca del posto fisso; in realtà sentivo che il precariato estremo sarebbe stato il nostro futuro e che il posto fisso ormai apparteneva al passato o comunque a pochi, pochissimi privilegiati. Di qualche anno ho anche tristemente anticipato i tanti casi di suicidio che ci sarebbero stati con l’avvento della crisi. Immaginavo che questo cambio radicale della percezione del lavoro, unito alle tante spese e allo stile di vita ai quali eravamo abituati, avrebbero preso alla sprovvista fino alla disperazione tante persone. Purtroppo i fatti si sono rivelati tali… nonostante le tante parole di certi politici.

Come e in quale misura i toni comici e le situazioni a tratti surreali hanno aiutato a raccontare quella che invece è una realtà di disperazione assoluta? Quali sono stati, se ne hai incontrati, invece i limiti?

– La disperazione, il dramma, la tragedia raccontate per come sono non mi hanno mai interessato. Siamo capaci tutti a piangere quando le cose ci fanno male; alcuni invece riescono meglio a controllare il proprio dolore evitando le lacrime. Diverso è riuscire a trasformare il pianto in riso: lì c’è una volontà che somiglia tanto alla vita, è spirito di adattamento ed istinto di sopravvivenza. La risata è una ricchezza che va oltre qualsiasi situazione e che per quanto mi riguarda non mostra limiti, se non forse quello di non essere presi subito sul serio. Le persone superficiali ad esempio non prendono sul serio le risate ma a me viene soltanto da ridere.

C’è qualcosa di autobiografico in questa opera oppure si è semplicemente lasciato ispirare dalla realtà circostante?

– Come detto la società in cui sono cresciuto mi ha sicuramente ispirato; in egual misura ha avuto una forte influenza anche il mio ambiente famigliare e quello degli amici più stretti che ho frequentato dai 16 fino ai 26 anni (quando ho scritto La Storia di mezzo). C’è un po’ di tutto e un po’ di pochi in questo mio testo. Credo sia per questo che piaccia ad un pubblico così ampio di persone.

A proposito della sua formazione, in un’occasione si è trovato a riportare le parole di chi usa definire la sua Dams (Disciplina delle Arti, della Musica e dello Spettacolo) la “laurea del nulla”, un titolo che le avrebbe potuto assicurarle soltanto una carriera da eterno precario. Secondo la sua esperienza, il futuro di chi sceglie di fare dell’arte il proprio mestiere è davvero così incerto?

Ora il futuro è incerto per tutti. Negli anni a cavallo tra la nuova realtà e la percezione che la gente aveva di quanto stava succedendo ho scelto di seguire l’istinto e di buttarmi a capofitto nel mestiere del precario per antonomasia… l’artista. Se proprio devo vivere come vogliono loro, mi sono detto, almeno voglio farlo a modo mio.

Anche Federica Orrù, attrice professionista, sarà sul palco durante questo weekend. Cosa ci può raccontare del suo personaggio senza svelare troppo gli intrighi della trama?

– Il personaggio che interpreterò è quello di Maria, moglie del protagonista Simone. Maria è una perfetta donna moderna, divisa tra lavoro, casa, palestra e problemi di coppia. Una donna che ha voglia di vivere ed essere felice ma insoddisfatta di quello che la vita le sta offrendo e che non fa più nulla per nascondere questa sua infelicità anche se nel profondo del suo cuore nutre ancora la speranza che le cose, un giorno, possano cambiare… saranno gli avvenimenti improvvisi e continui a decidere che direzione prenderà la sua vita e quella di tutta la sua bizzarra famiglia.

Ha intrapreso la strada della recitazione perfezionandosi per anni e lavorando per la televisione, il cinema e il teatro. Quanto incide avere una buona preparazione per chi decide di dedicarsi a questa professione?

– Credo che Il mestiere dell’attore sia sicuramente uno dei più impegnatavi a livello di studio e preparazione tecnica: diventare attore è prima di tutto un lavoro su sé stessi e un percorso di studio intenso, che una volta intrapreso, richiede approfondimento continuo e costante e che può e deve durare l’arco di un’intera carriera. Ritengo quindi che la preparazione sia fondamentale, come in tutti i campi della vita, per diventare dei professionisti, ma allo stesso tempo c’è bisogno che la tecnica appresa diventi un connubio inscindibile anche con un qualcosa che è un di più, qualcosa che è simile ad una specie di “magia”, qualcosa che non si può insegnare: talento, personalità, fantasia, immaginazione, curiosità, espressività, vissuto personale… e tutto quello che del proprio mondo interiore l’attore riesce a comunicare al pubblico, in quel modo che dovrà essere solo suo, attraverso il personaggio che sta interpretando in quel momento.

Quale consiglio si sente di dare a chi ha timore di inseguire il proprio sogno da performer?

– Come già detto non è un mestiere semplice, bisogna determinarsi e volerlo veramente essendo disposti ad affrontare i sacrifici che richiede ma anche pronti a ricevere le grandi soddisfazioni che può dare. Iniziare dai primi passi. Per cui suggerirei di provare, con entusiasmo e serietà, ad incontrarlo quel sogno, quello che ognuno sa e conosce dentro di sé.

Progetti futuri sui quali sentite di poterci dare qualche anticipazione?

Finite le rappresentazioni de “La Storia di mezzo” inizieremo a lavorare su un monologo che porteremo in scena a maggio al Teatro Ambra alla Garbatella. In scena ci sarà Andrea Alesio per la regia di Gigi Palla. Il testo ancora lo sto rivedendo per proporre qualcosa che sia profondamente stimolante per noi e per il pubblico. Dimenticavo, il titolo del monologo è “Il Catamarano”.

Teatro ed impegno sociale: la parola ad Isabel Russinova

Fare informazione non è semplice, soprattutto quando si tratta di argomenti come quello dei matrimoni forzati e precoci; sensibilizzare le coscienze intorpidite dalla sovraesposizione mediatica è un compito ancora più arduo. Amnesty International Italia, in collaborazione con l’Università degli Studi di Roma Tre, ha voluto ed è riuscita a farlo attraverso una campagna che, tra gli altri, ha saggiamente sfruttato tutta la potenza comunicativa del teatro per raggiungere questo scopo. Isabel Russinova, in qualità di testimonial dell’organizzazione, per supportare questa iniziativa ha messo a disposizione tutto il talento e l’esperienza di un’artista che, attrice professionista da molti anni, ha dimostrato quanto ancora si possa fare sfruttando la magia dell’interpretazione.

La intervistiamo per farci raccontare come ha vissuto questa esperienza.

ISABEL RUSSINOVA
A una settimana di distanza dalla ricorrenza della festa della donna è salita sul palco del Teatro Palladium di Roma per interpretare “Safa e la sposa bambina”, un racconto tristemente ispirato alla storia vera di una donna siriana. Il tema della condizione femminile nei paesi devastati dalla guerra del Medioriente è tanto scottante quanto attuale, anche se poco presente nei discorsi dei media generalisti. Quali sono stati i vantaggi e quali le difficoltà di parlarne alla maniera del teatro?

– La scrittura teatrale permette di animare personaggi e storie focalizzando sentimenti, drammi e ansie: il protagonista compie azioni, ricorda e descrive anche le proprie emozioni. Questo lo avvicina a chi ascolta e così qualcosa di quel personaggio, di quella storia, entra dentro di noi e finisce per appartenerci: possiamo riconoscere la sua sofferenza, la sua ansia, la sua disperazione, percepirla sulla nostra pelle tanto da sentirci vicini alla sua realtà. È così che si può riuscire a sensibilizzare il pubblico alle tematiche che si vogliono trattare. Non è sempre un’impresa facile, ma il cinema, il teatro, la musica, la letteratura e le arti figurative sono i più alti e unici strumenti che l’uomo ha per fissare la memoria, i fatti e i personaggi dell’umanità da sempre.
L’informazione svolge un ruolo molto importante e la rete ci permette di poter sapere, vedere, sentire e parlare di tutto e con tutti. Le televisioni generaliste propongono, ma siamo noi a scegliere e a decidere.
I telegiornali e i settimanali di approfondimento occupano i palinsesti, si intervista, si parla, di tanto, di tutto e di tutti, si mostrano immagini, ma alla fine la distrazione, l’abitudine, la svogliatezza inghiottono molto e poco rimane impresso, e quello che rimane a volte è distante dalla realtà, diventa quasi fiction.
Il teatro, il cinema, la letteratura e la musica possono avere la forza di scaraventarci proprio lì, in mezzo all’azione, accanto al protagonista, per sentire il cuore in gola, gli occhi lucidi, le mani sudate. La cultura è il più efficace strumento che l’uomo ha per difendersi.

Vestire i panni di una donna siriana che ha vissuto un simile dramma deve essere stato difficile ma allo stesso tempo utile ad assumere un punto di vista più interno, se vogliamo, alla questione. Cosa le ha insegnato Safa?

– Safa è una donna che ha perso tutto, l’amore, la maternità, la serenità: è rimasta sola. È terribile. Come Safa ci sono milioni di donne oggi, da sempre, ma lei, come tutte quelle che sono venute prima di lei, va avanti, cercando di dare dignità a quello che resta della sua vita, quella stessa vita che sembra le abbia voltato le spalle .
Ecco, storie come questa ci danno la possibilità di percepire cosa è davvero importante ci fanno vergognare quando osserviamo, invece, quanto valore si dà al “nulla”, alla futilità, all’apparenza. È importante raccontare storie come questa, soprattutto ai giovani, in modo da stimolare la loro coscienza, il loro pensiero critico e la curiosità per la conoscenza.

Il racconto della protagonista di queste tragiche vicende si svolge nell’arco di una notte. Giochi di luci ed ombre, accompagnati dall’alternarsi di una dolce musica al il rumore della pioggia, hanno creato una tensione narrativa che ha reso il monologo estremamente intenso per tutta la sua durata. Come ha affrontato la sfida posta da questa particolare tecnica teatrale?

– Il racconto di una storia è come la vita, dove la pioggia, il canto del vento, l’oscurità misteriosa della notte, la grazia del sole e il cinguettio degli uccelli ci accompagnano giorno dopo giorno, misteriosi , discreti o prepotenti: sono loro che sottolineano, colorano o annullano la nostra storia; e così quando siamo noi a raccontarne o ad inventarne una, dobbiamo farci aiutare da loro per descriverla al meglio.

Prima di supportare “Mai più spose bambine”, la campagna di Amnesty International per combattere il fenomeno dei matrimoni precoci e forzati, aveva già collaborato con questa organizzazione partecipando alla realizzazione del docufilm “Il Popolo di re Heruka! – Storia del popolo di re Heruka, un popolo antico che amava l’acqua e sfidava il vento”, proiettato durante un evento volto ad approfondire la conoscenza e la comprensione del popolo rom. Qual è il valore che attribuisce al ruolo dell’arte nella lotta per il sociale?

– Si, come testimonial ufficiale di Amnesty ho realizzato diversi progetti. “Il popolo di re Heruka” è uno di questi: una ballata tra teatro e documento atto a raccontare la storia del popolo rom. Vorrei anche ricordare “ Una donna spezzata”, toccante monologo di Simon de Beauvoir, madre del femminismo moderno, che da tempo propongo e fa parte del mio repertorio e che è stato appena pubblicato anche in versione dvd. Inoltre “Briganta”, un mio testo per il teatro ispirato alla storia di Rosina Donatelli Crocco, sorella del generale dei briganti Carmine Crocco: il brigantaggio è un momento importante nella storia della liberazione donna del nostro Ottocento.

Leggendo la sua biografia emerge che l’incontro con Rodolfo Martinelli Carraresi, agli inizi degli anni ’90, ha rappresentato un punto di svolta per la sua sfera privata (lo definisce “compagno di vita”), ma anche e soprattutto per quella lavorativa: insieme avete fondato la società di produzione “Ars Millennia” e la casa della Drammaturgia Contemporanea Internazionale “Bravò”. Come sono nati questi progetti divenuti importanti realtà?

– Tra noi c’è una grande affinità elettiva, una buona sintonia che ci ha portato ad essere compagni di vita da quasi 25 anni. Grande rispetto e libertà reciproca ci hanno aiutato a scegliere ogni giorno come missione di vita, la nostra famiglia, i nostri figli e i nostri progetti volti al sociale.

“Ars Millennia” si occupa anche di editoria e Isabel Russinova è, inoltre, una scrittrice: in aggiunta a diverse sceneggiature per il cinema, nel 2006 ha pubblicato “Ti racconto quattro storie”, il sua primo libro per ragazzi, e poi, nel 2009, “Antonio, l’isola e la balena”. Cosa ci può raccontare di questa avventura, ancora diversa da tutte le precedenti?

– Amo molto scrivere, raccontare storie, cercare e studiare personaggi che hanno vissuto e dato alti contributi all’umanità nel corso della loro vita e che magari oggi rischiano di essere dimenticati. Attraverso la scrittura, il teatro e il cinema si può dare loro la possibilità di raccontarsi ancora e di lasciare ancora, soprattutto ai giovani, la conoscenza della loro lotta, delle loro imprese e della loro energia. Solo conoscendo bene il nostro passato possiamo costruire il nostro futuro.

Tv, teatro, cinema, libri: premesso che ognuno di essi gode di una peculiarità che lo rende unico ed incomparabile, qual è il canale espressivo che preferisce?

– Amo costruire progetti capaci di raccontare storie e lasciare un messaggio, animare personaggi e la loro vita, indipendentemente dal linguaggio. Alla fine si può dire che è la storia a scegliere il suo percorso e il suo linguaggio.

Su quale progetto futuro può fornirci qualche anticipazione?

– Stiamo lavorando sul montaggio del film che abbiamo appena finito di girare e che porterà la nostra firma: “L’incredibile storia della signora del terzo piano”, un’amara favola contemporanea. Il progetto sarà pronto il prossimo anno.